Skip to main content

«La mia storia come dipendente e paziente»: la testimonianza di Maria

Lavoro a Raprui dal 2001. A marzo del 2011 sono rimasta incinta naturalmente e per caso ho fatto il test di gravidanza – che è risultato positivo – proprio a lavoro! Puoi immaginarti quanto fossi entusiasta, ma dopo due giorni ho iniziato ad avere dei dolori e mi è arrivato il ciclo. È stata una delusione, una grande delusione, anche perché erano già due anni che cercavamo la gravidanza, anche se io sono stata un po’ limitata perché ho avuto un adenoma ipofisario.
Il mese successivo faccio di nuovo il test: positivo. Dopo due giorni, però, stessa cosa: la gravidanza si è fermata nuovamente.
Parlando con la Dott.ssa Antinori e il Dott. Cerusico abbiamo deciso di fare la fecondazione assistita e ho iniziato la prima stimolazione a distanza di un solo mese. Lavorando qui è stato tutto talmente naturale che non ci siamo nemmeno resi conto, non sono stata a pormi il problema “oddio, devo fare la fecondazione”. Oltretutto, venendo dall’esperienza dell’adenoma ipofisario che ho dovuto curare per 5 anni con un farmaco molto forte sapevo già che non sarebbe stato semplicissimo. Io ero pronta, è stato più un colpo per mio marito, che quando ha fatto i primi esami ha visto che i valori non erano buonissimi.

La prima stimolazione che ho fatto ero totalmente inesperta, nonostante gli anni passati al centro, il contatto con i pazienti, con i medici… Siringhe, punture, tutte quelle cose… non sapevo da che parte iniziare! Eppure, di necessità ho fatto virtù, mi sono addentrata in questo mondo e ho cominciato. Con la prima stimolazione abbiamo prelevato 13 follicoli e abbiamo conservato 9 embrioni. Ho fatto il primo transfer a distanza di un po’ di tempo, ma è andato male.
La delusione è stata grande, un po’ perché stando in mezzo a questo mondo tutti i giorni vedi più risultati che i fallimenti, un po’ perché ti rendi conto che gli embrioni che si formano non sono fortissimi, quindi ti fai duemila domande. Oltretutto, vivi anche la situazione che tuo marito si deprime ancora di più perché si sente responsabile.
Poi ho fatto il secondo transfer – peggio che mai – e dopo abbiamo deciso di mandare in coltura gli embrioni rimasti. Purtroppo, si sono arrestati tutti.
A distanza di un annetto, nel novembre 2013, abbiamo deciso di provare con un’altra stimolazione cambiando protocollo: ho fatto il transfer il 23 novembre e poi il test intorno al 7-8 dicembre.
Anche in quel caso gli embrioni che avevamo lasciato in coltura si erano fermati e io mi ero convinta che non sarebbe andata bene, pensavo «se quelli si sono fermati quando mai potrà avere successo il transfer?». Invece ho fatto il primo test  – di nascosto da tutti – ed era positivo. 
Ormai era diventata un’esperienza collettiva, di tutto il centro. Io non ne avevo parlato a casa, non perché mi vergognassi di quello che stavo facendo ma un po’ per scaramanzia e un po’ per non dover dire a tutti «è andata male». Addirittura non l’ho detto a nessuno all’infuori si Raprui e le mie sorelle finché non sono arrivata a 5 mesi!

Quello che penso è che non bisogna mai scoraggiarsi, perché purtroppo non è che i bambini puoi impastarli e te li danno in braccio. È scienza, e anche se si fa un ottimo lavoro non è infallibile. C’è il massimo impegno, ma non dipende tutto dai medici e dai laboratori, entrano in gioco anche la fortuna, la selezione naturale… non te la puoi prendere con nessuno. Alla fine io ora ho i miei figli  – che sono due gioielli – e va bene così.
Io sono un po’ fatalista, credo che le cose non succedano per caso. Io ho iniziato a lavorare da Raprui venendo da tutt’altro settore e non avrei mai detto che avrei avuto bisogno della fecondazione assistita, invece la vita ti mette davanti a cose inaspettate. Io venivo da una famiglia numerosa, mia madre ha avuto tantissime gravidanze, le mie sorelle idem… non te lo aspetti. Anche se avevo il pensiero che avrei potuto avere qualche difficoltà in più per colpa della mia storia clinica, fino a quando non mi ci sono ritrovata effettivamente, avevo lasciato l’idea un po’ da parte. Ti dici «no, tanto non è così». E poi ti scontri con la realtà, inizi a pensare che sei grande, che tutti intorno a te hanno figli che arrivano più o meno facilmente in modo naturale e tu invece cominci a maturare dentro di te la sensazione che sei malata, perché ci hai provato in tutti i modi. Soprattutto, avendo avuto due gravidanze spontanee che non sono andate avanti capisci che c’è qualche problema, e un po’ questo pesa.

Essere sia paziente che dipendente mi ha aiutato. Non c’è stato imbarazzo, perché dopo tanti anni si era instaurato un rapporto se non proprio intimo, almeno confidenziale. Forse ho avuto un po’ più aspettative rispetto a una paziente normale. Io sono stata fortunata, perché il Prof. Cerusico, la Dott.ssa Monica, tutti, mi hanno davvero supportata tantissimo. «Non ti scoraggiare, sei qui e non potevi capitare in mani migliori», mi ripetevano. E avevano ragione, anche se quando succede non è facile mandare giù il fallimento.
Diciamo che il passaggio dipendente-paziente ha avuto dei benefici per me, guardandomi indietro  mi rendo conto che sicuramente ha alleggerito un po’ il percorso, perché ho avuto la possibilità di essere in contatto continuo con i medici e potermi togliere ogni minimo dubbio, che magari un paziente non stando qui tutti i giorni per otto ore non riesce a togliersi. Purtroppo, per quanto i medici siano disponibili e attenti, la distanza medico-paziente o assistente-paziente è sempre presente e per quanto uno cerchi di fare il massimo – e qui davvero cerchiamo di farlo – non è materialmente possibile seguire costantemente ogni singola coppia per ogni singola esigenza come hanno potuto fare con me, nemmeno con tutta la buona volontà e disponibilità. L’importante, però, è cercare sempre di fare tutto il possibile: questo può aiutare tutte quelle coppie che rimangono più riluttanti e spesso determina anche la scelta di rimanere in questo centro, soprattutto per chi viene da centri in cui si è sentito trattato proprio come un numero.

È stata un’esperienza che mi ha veramente aperto un mondo: fino a quando stai da questa parte soltanto a livello lavorativo e non ti metti dalla lato del paziente non puoi sapere qual è davvero lo stato d’animo. Mi ha permesso di capire quello che provano i pazienti, in tutte le situazioni. Ha cambiato anche le mie capacità di relazionarmi con loro e il servizio che posso dare, soprattutto perché ora capisco davvero le loro necessità. Posso capire quali sono le aspettative, come reagiscono a una parola magari detta in modo diverso dal medico. Conosco i loro dubbi, le loro ansie. Li comprendo davvero.
Ricordo che una paziente è arrivata molto sconfortata, dicendo «io sarò sicuramente una di quelle a cui andrà tutto male». Le ho raccontato la mia storia e ho visto che l’aveva già un pochino rincuorata. Poi alla fine è arrivata anche la gravidanza!
Io lo vedo che quando dico «ti capisco benissimo perché oltre a essere dipendente sono stata paziente» ai pazienti si illumina il viso e pensano «dall’altra parte c’è qualcuno mi capisce davvero».

Chi non si sente capito si sente svantaggiato. Uno ci mette tantissima speranza, perché per fare questo percorso ti devi affidare e affidandoti non sei mai sicuro fino in fondo. Magari il medico ti ispira fiducia, il centro ti ispira fiducia, ma ti chiedi sempre «andrà bene? starò facendo bene?» e cerchi il confronto, perché hai sempre paura di sbagliare. Questo accade soprattutto se ci sono precedenti fallimenti, perché si investe ancora di più, ancor più speranze, e uno si aspetta sempre di più in ogni centro che va.
Non è facile sentirsi “incomplete” perché non riesci ad avere la gravidanza naturalmente, anche se non è che uno abbia delle colpe, sei stato fatto così e basta. Io sono convinta che avere un supporto psicologico sia molto importante, perché può essere molto pesante, soprattutto quando ci sono fallimenti ripetuti. Il percorso è tortuoso, con tutte le analisi, le punture, il prelievo ovocitario, tu che cominci a cambiare, ti gonfi… però, ecco, anche se ci sono i momenti negativi poi ci sono quelli positivi che ti fanno dimenticare tutto. Io se mi giro indietro nemmeno li vedo, non mi ricordo neanche più tutti i passaggi. 

Penso che parlare, parlare, parlare, aiuti, che condividere aiuti. Non si tratta di mettersi in mostra o non saper mantenere privati certi aspetti della propria vita, ma di confrontarsi per aiutare chi è nella stessa situazione a trovare la forza.
Non è possibile che nonostante siamo quasi nel 2020 ci sia ancora così tanta vergogna per una cosa come questa. Se ci sono delle problematiche, le affronto come posso e ringrazio Dio che la scienza ci dia le possibilità per farlo.