Posticipare la maternità è una scelta sempre più diffusa, basti pensare che in Italia quasi 8 bambini su 100 vengono partoriti da mamme over 40. Le possibilità di successo, però, diminuiscono con l’aumentare dell’età: secondo i dati dell’ISS, infatti, subiscono un notevole calo fra i 35 e i 40 anni, per arrivare a essere molto basse oltre i 40.
È quindi il caso di intervenire quando la produzione ovarica è ancora adeguata, preservando la capacità riproduttiva al suo apice. La conservazione della fertilità, conosciuta anche con il termine inglese social freezing, è una metodica che permette di vetrificare ovociti ed embrioni da utilizzare in fasi successive della propria vita riproduttiva. Ma in cosa consiste esattamente? Ne abbiamo parlato con Stella Antinori, embriologa del Centro Raprui che ha scelto di ricorrere al social freezing per tutelare la sua fertilità e ha deciso di condividere la sua esperienza raccontandoci la sua storia.
Iniziamo con la domanda più scontata: perché hai deciso di ricorrere alla conservazione della fertilità?
Quando mi sono sottoposta al trattamento, io e mio marito Raffaele (embriologo del Centro Raprui, NdA) stavamo insieme già da dodici anni, ma non sapevamo quando saremmo stati pronti per avere dei figli. A prescindere da questo, ho sempre visto che questa metodica funzionava e mi sono chiesta: «faccio questo lavoro e non usufruisco di questa possibilità?». Vedendo tanti pazienti – magari ancora giovani – in difficoltà, non mi andava di arrivare a un certo punto della mia vita e scoprire che era ormai troppo tardi.
Ho deciso di fare la rilevazione dell’AMH, l’ormone antimulleriano. Non era basso, solo leggermente sotto la media. Andava abbastanza bene ma io mi sono spaventata e mi sono detta: «non posso aspettare». Pochi giorni prima di compiere 31 anni ho iniziato la terapia di stimolazione, con una marea di ansie. Facendo questo lavoro so tutto quello che può accadere, in positivo e in negativo. È vero, può andare tutto bene, ma può andare anche tutto storto. Non che dipenda da qualcuno o da qualcosa, ma ogni persona è diversa. Io avevo fatto 11 follicoli, ma chi mi assicurava che non fossero vuoti o che gli ovuli non fossero buoni? Da quel punto di vista devo ammettere che la prima volta l’ho vissuta un po’ male, stavo un po’ in ansia.
Per recuperare gli ovociti da vetrificare hai dovuto sottoporti a una stimolazione ormonale e al pick-up ovocitario: com’è andata?
Quando ho cominciato a fare la terapia, all’inizio come tutte le pazienti avevo l’ansia: «oddio, starò male psicologicamente, gli ormoni…». Invece, è andato tutto bene. Ho solo stressato tutti quanti con l’ansia per le punture, ma realmente non ho avuto nessun tipo di problema legato alla terapia.
Il 2 febbraio ho fatto il pick-up. Non avevo mai fatto l’anestesia, la sedazione, e anche questo mi spaventava e mi stressava molto. Alla fine sono stata benissimo. Sono entrata con le cuffie e John Legend nelle orecchie e mi sono svegliata meglio di prima! È stato bello, perché quando ho aperto gli occhi ho visto mia sorella Monica (la Dott.ssa Antinori, Direttore Clinico del Centro Raprui, NdA) e Raffaele, che mentre dormivo aveva già denudato gli ovociti. Siamo stati fortunati a poter vivere insieme questa esperienza a 360°.
Dopo l’intervento, durante il quale Monica mi aveva fatto anche un’isteroscopia per verificare che l’utero fosse a posto, sono stata subito bene. Nemmeno un’ora dopo essermi svegliata mi sono alzata e sono andata dritta in laboratorio.
Dopo tre anni avete deciso di ripetere il trattamento: perché?
Per avere più possibilità: c’è chi pensa erroneamente che vetrificare 9 ovociti significhi avere 9 embrioni e quindi 9 possibilità di gravidanza, ma non è così. Possono essere molte meno, a volte anche nessuna, perché c’è una selezione naturale su cui non possiamo intervenire. Per questo ho deciso di fare una nuova stimolazione: non si sa mai cosa può succedere.
La seconda stimolazione è andata liscia, almeno a livello psicologico, anche se quando uno fa le punture la paura c’è sempre. Addirittura, per la paura di sbagliare, ho rotto una fiala tra le mani.
Al secondo pick-up, solo tre anni dopo la prima stimolazione, ho ottenuto un numero minore di ovociti e anche la loro qualità era peggiorata. Questo fa capire quanto il fattore tempo sia determinante e possa cambiare le cose. Questo dipende non solo dall’età ma anche dal fatto che io sono una fumatrice e il fumo incide fortemente sulla qualità ovocitaria.
Sono ancora poche le donne che si sottopongono al social freezing. Secondo te perché?
Non c’è informazione su queste tematiche. Negli Stati Uniti, ad esempio, c’è molta più consapevolezza e molte più persone conoscono questo genere di percorsi, che in Italia sono ancora poco noti. Lo vediamo anche nella nostra quotidianità al Centro: molti pazienti che vengono, arrivano tardi. Da un lato è comprensibile, c’è di mezzo la crisi economica e la precarietà, oltre al fatto che non necessariamente uno riesce a trovare l’anima gemella a 30 anni.
Per questo, secondo me, sarebbe meglio per tutti ricorrere al social freezing. Io lo consiglio, perché nella vita non si può mai sapere. Magari trovi la persona giusta per te a 45 anni, o la stabilità economica a 38. Sono consapevole che sono stata fortunata a poter accedere a questo servizio così facilmente, perché è comunque un trattamento che ha i suoi costi e so perfettamente di essere privilegiata sotto questo aspetto. Se uno potesse, però, penso davvero che sarebbe meglio farlo una volta nella vita.
Non pensi che possa essere anche la paura della terapia ormonale e del prelievo ovocitario a frenare le pazienti?
Non parliamo di un intervento invasivo, so che molte pazienti sono spaventate dagli ormoni, dall’idea che «avrò sbalzi di umore, mi gonfierò, ingrasserò…», ma non è così. Voglio rassicurarle, è importante dirlo: quando ci si sottopone alla stimolazione è maggiore lo stress di sbagliare qualcosa che gli effetti veri e propri della terapia. Io ho solo sentito una sensazione di gonfiore, proprio prima del pick-up, come se mi stesse per venire il ciclo. Non erano dolori, giusto un gonfiore. Anche la sedazione può spaventare e io ero la prima ad avere paura, ma anche in questo caso, non c’è davvero niente da temere.
Posso aggiungere una cosa?
Certo, prego.
Ci tengo a specificare una cosa: non ho fatto ricorso al social freezing perché sono legata a una questione “genetica” o perché volevo per forza che i figli avessero il nostro DNA. L’ho fatto perché devo sapere che ho fatto tutto quello che potevo fare, lo devo a me stessa. Poi, se un domani non dovesse andare bene con questi ovociti, non avrei nessun problema a ricorrere all’eterologa. Un figlio è di chi lo cresce.
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