Quando ci si sottopone ad ovodonazione è necessario o utile fare l’amniocentesi? In quali casi? Ma soprattutto quali sono i rischi? È un dubbio lecito, una preoccupazione in più che alcune donne si trovano ad affrontare dopo aver intrapreso un percorso di fecondazione assistita. La risposta non è semplice ed univoca. Dipende dai casi. Ecco cosa occorre sapere al riguardo.
Amniocentesi, cos’è e quando si fa
L’amniocentesi è un test prenatale invasivo che prevede il prelievo di liquido amniotico (contenente cellule fetali), facendo passare un sottile e lungo ago attraverso la parete addominale e dunque quella uterina ed il sacco amniotico. Tutto avviene sotto la guida di immagini ecografiche in diretta onde evitare al massimo i rischi per il bambino ed il proseguo della gravidanza. Si esegue in genere nel secondo trimestre tra le 15 e le 20 settimane di gestazione. Il test è finalizzato all’analisi dei cromosomi del bambino, comunemente per escludere la sindrome di Down, ma non solo. A prescindere dall’ovodonazione e dalla fecondazione assistita, non è comunque un’indagine prenatale da far fare a tutte le donne. Ha precise indicazioni. Nello specifico è consigliata vivamente a tutte le future mamme che hanno più di 35 anni. Le anomalie cromosomiche, infatti, sono spesso legate all’età materna, poiché gli ovociti iniziano ad invecchiare e sono quindi di scarsa qualità. A 35 anni, ad esempio, il rischio della trisomia 21 è pari ad 1 ogni 200 gravidanze, percentuale che sale a 40 anni fino ad 1 ogni 50-100 per aumentare anno dopo anno. L’amniocentesi è inoltre consigliata a tutte le donne che hanno familiarità con alterazioni cromosomiche o malformazioni fetali e alle gestanti che hanno eseguito il tri test con esiti dubbi o anormali.
Amniocentesi, i rischi
Nonostante sia considerata un’indagine diagnostica sicura se praticata da medici esperti, l’amniocentesi comporta comunque un rischio leggermente inferiore all’1% di provocare un aborto spontaneo. Molto basso, ma possibile. Altri problemi o effetti collaterali di questa indagine diagnostica possono essere:
- Perdita di liquido amniotico dalla ferita
- Puntura del feto o del cordone ombelicale durante il test
- Trasmissione di infezioni dalla madre al feto
- Infezioni intrauterine
Ovodonazione, cos’è e come si fa
L’ovodonazione è una tecnica di procreazione medicalmente assistita che prevede la donazione di ovuli da parte di una donna esterna alla coppia che vuole avere un figlio e non riesce in altri modi. Si parla in tal caso di fecondazione eterologa. L’ovodonazione è possibile solo in determinati casi: ovvero quando sia accertata e certificata una sterilità o infertilità irreversibile (ad esempio in assenza di ovaie congenita o dovuta a chirurgia, in caso di menopausa precoce, di scarsa qualità degli ovociti, eccetera) oppure quando la donna che desidera concepire un bambino è portatrice di malattie genetiche. In questi casi sarà la donatrice a sottoporsi a stimolazione ovarica e a pick-up ovocitario, mentre la ricevente sarà oggetto di una terapia ormonale per preparare l’utero e tutto l’organismo al trasferimento dell’embrione, dopo la fecondazione in vitro. La donatrice, per garantire una buona qualità di ovuli e dunque migliori possibilità di successo, deve essere giovane, con un’età compresa tra i 18 ed i 34 anni ed in buono stato di salute, in assenza di malattie infettive o altre problematiche.
Amniocentesi dopo ovodonazione, è necessaria?
L’amniocentesi è solitamente indicata per le donne over 35, in quanto la potenziale scarsa qualità degli ovociti dovuta all’età rappresenta un rischio concreto di sviluppare un feto con alterazioni cromosomiche. Sia che si tratti di una gravidanza avvenuta con concepimento naturale sia con fecondazione assistita omologa. Tendenzialmente il problema non si pone in caso di eterologa con ovodonazione perché gli ovuli sono prelevati da donatrici giovani. Rimane il fatto che il rischio di anomalie cromosomiche o genetiche non è del tutto escluso. Per questo motivo anche dopo ovodonazione può essere suggerito alla donna di sottoporsi ad amniocentesi. Ma solo in determinati rari casi. Di solito si procede con i seguenti test di screening non invasivi:
- Tri test: comporta una valutazione combinata di alcune analisi del sangue e la misurazione della traslucenza nucale del feto. Questi valori però non esprimono la presenza di una patologia cromosomica, ma solo il suo rischio.
- Test prenatale non invasivo o NIPT: prevede un’analisi del sangue materno dopo la 9a settimana di gestazione, quando cioè è possibile trovare Dna fetale. Questo test è in grado di rilevare fino all’80% delle anomalie cromosomiche individuabili con l’amniocentesi.
- Diagnosi genetica preimpianto ( PGD ): si può eseguire nei casi di fecondazione assistita in quanto analizza una cellula embrionale prima del trasferimento in utero.
Questi test, in caso di risultati nella norma, possono escludere il ricorso all’amniocentesi, anche e soprattutto in presenza di ovodonazione. Tuttavia sarà sempre opportuno seguire le indicazioni dello specialista, diverse a seconda dei casi. Fondamentale è rivolgersi ad un centro per la fertilità di comprovata esperienza.